Ed è qui che io abito,nel centro del mio giorno con i piedi per terra e mare tutto intorno.

domenica 27 settembre 2009

Il treno dell'utima notte

" Il primo amore della sua vita. Adesso lo sa. Se l'è detto di notte, mentre guardava la finestra su cui brillava di riflesso il lampione. Se l'è ripetuto:io amo Emanuele e lui ama me. E quasiasi cosa succeda, continueranno ad amarsi, perchè un incontro non si sceglie ma si prende come un destino e quando è avvenuto, è compiuto per sempre..."
Da" Il treno dell'ultima notte" di Dacia Maraini
E questo amore, secondo Amara, la protagonista dell'ultimo romanzo della Maraini, nato durante l'infanzia, è destinato a durare tutta una vita. Come non amare Emanuele, un bambino ribelle e pieno di vita che vuole costruirsi un paio di ali per volare come gli uccelli. Emanuele che ha sempre addosso un odore sottile di piedi sudati e ginocchia scortecciate, l'"odore dell'allegria". Emanuele che si arrampica sui ciliegi e si butta a capofitto in bicicletta giù per strade sterrate. Ma tutto ciò che resta di lui è un pugno di lettere, e un quaderno nascosto in un muro nel ghetto di Lodz. Per ritrovare le sue tracce, Amara, attraversa l'Europa del 1956 su un treno che si ferma a ogni stazione, ha i sedili decorati con centrini fatti a mano e puzza di capra bollita e sapone al permanganato.
Amara visita sgomenta ciò che resta del girone infernale di Auschwitz-Birkenau, percorre le strade di Vienna alla ricerca di sopravvissuti, giunge a Budapest mentre scoppia la rivolta degli ungheresi, e trema con loro quando i colpi dei carri armati russi sventrano i palazzi. Nella sua avventura, e nei destini degli uomini e delle donne con cui si intreccia la sua vita, si rivela il senso della catastrofe e dell'abisso in cui è precipitato il Novecento, e insieme la speranza incoercibile di un mondo diverso.
(Dalla quarta di copertina)
Ho letto il ramanzo ad agosto...non era propriamente un libro da leggere sotto l'ombrellone per le tematiche impegnative e scritte con uno stile diverso da quello tipico della Maraini.
E' un romanzo che elogia la libertà, denuncia le efferatezze perpetrate dai totalitarismi del Ventesimo secolo e definisce il senso della giusta memoria: i fantasmi malvagi del passato non sono sconfitti; si può costruire il futuro solo se i criminali sono condannati e le colpe espiate.

venerdì 25 settembre 2009

Le osterie





A me piacciono gli anfratti bui


delle osterie dormienti,


dove la gente culmina nell'eccesso del canto,


a me piacciono le cose bestemmiate e leggere,


e i calici di vino profondi,


dove la mente esulta,


livello di magico pensiero.


Troppo sciocco è piangere sopra un amore perduto


malvissuto e scostante,


meglio l'acre vapore del vino


indenne.....



alda merini

giovedì 24 settembre 2009

Tempo è...


"Tempo è di tornare poveri
per ritrovare il sapore del pane,
per reggere alla luce del sole
per varcare sereni la notte
e cantare la sete della cerva.
E la gente, l'umile gente
abbia ancora chi l'ascolta,
e trovino udienza le preghiere.
E non chiedere nulla"



Queste parole di David Maria Turoldo sono un
autentico inno alla semplicità.
E credo che questo elemento, che è sinonimo di sobrietà,
sia la strada giusta da percorrere in questo momento
non proprio facile
per tutti noi.
Tempo è di ritornare a vivere con
semplicità ed autenticità, apprezzando quello che abbiamo,
senza pensare troppo agli altri,
al loro giudizio.

lunedì 21 settembre 2009

Identità nella coppia




"Vi sono situazioni in cui
per un istante non riconosciamo chi ci sta accanto,
istanti in cui l'identità dell'altro si cancella,
mentre, di riflesso,
dubitiamo della nostra."



(P.Citati)


Quel sangue del Sud versato per il Paese di Roberto Saviano

20 settembre 2009

Vengo da una terra di reduci e combattenti. E l'ennesima strage di soldati non l'accolgo con la sorpresa di chi, davanti a una notizia particolarmente dolorosa e grave, torna a includere una terra lontana come l'Afghanistan nella propria geografia mentale. Per me quel territorio ha sempre fatto parte della mia geografia, geografia di luoghi dove non c'è pace. Gli italiani partiti per laggiù e quelli che restano in Sicilia, in Calabria o in Campania per me fanno in qualche modo parte di una mappa unica, diversa da quella che abbraccia pure Firenze, Torino o Bolzano. Dei ventun soldati italiani caduti in Afghanistan la parte maggiore sono meridionali. Meridionali arruolati nelle loro regioni d'origine, o trasferiti altrove o persino figli di meridionali emigrati. A chi in questi anni dal Nord Italia blaterava sul Sud come di un'appendice necrotizzata di cui liberarsi, oggi, nel silenzio che cade sulle città d'origine di questi uomini dilaniati dai Taliban, troverà quella risposta pesantissima che nessuna invocazione del valore nazionale è stato in grado di dargli. Oggi siamo dinanzi all'ennesimo tributo di sangue che le regioni meridionali, le regioni più povere d'Italia, versano all'intero paese.
Indipendentemente da dove abitiamo, indipendente da come la pensiamo sulle missioni e sulla guerra, nel momento della tragedia non possiamo non considerare l'origine di questi soldati, la loro storia, porci la domanda perché a morire sono sempre o quasi sempre soldati del Sud. L'esercito oggi è fatto in gran parte da questi ragazzi, ragazzi giovani, giovanissimi in molti casi. Anche stavolta è così. Non può che essere così. E a sgoccioli, coi loro nomi diramati dal ministro della Difesa ne arriva la conferma ufficiale. Antonio Fortunato, trentacinque anni, tenente, nato a Lagonegro in Basilicata. Roberto Valente, trentasette anni, sergente maggiore, di Napoli. Davide Ricchiuto, ventisei anni, primo caporalmaggiore, nato a Glarus in Svizzera, ma residente a Tiggiano, in provincia di Lecce. Giandomenico Pistonami, ventisei anni, primo caporalmaggiore, nato ad Orvieto, ma residente a Lubriano in provincia di Viterbo. Massimiliano Randino, trentadue anni, caporalmaggiore, di Pagani, provincia di Salerno. Matteo Mureddu, ventisei anni, caporalmaggiore, di Solarussa, un paesino in provincia di Oristano, figlio di un allevatore di pecore. Due giorni fa Roberto Valente stava ancora a casa sua vicino allo stadio San Paolo, a Piedigrotta, a godersi le ultime ore di licenza con sua moglie e il suo bambino, come pure Massimiliano Radino, sposato da cinque anni, non ancora padre.
Erano appena sbarcati a Kabul, appena saliti sulle auto blindate, quei grossi gipponi "Lince" che hanno fama di essere fra i più sicuri e resistenti, però non reggono alla combinazione di chi dispone di tanto danaro per imbottire un'auto di 150 chili di tritolo e di tanti uomini disposti a farsi esplodere. Andando addosso a un convoglio, aprendo un cratere lunare profondo un metro nella strada, sventrando case, macchine, accartocciando biciclette, uccidendo quindici civili afgani, ferendone un numero non ancora precisato di altri, una sessantina almeno, bambini e donne inclusi. E dilaniando, bruciando vivi, cuocendo nel loro involucro di metallo inutilmente rafforzato i nostri sei paracadutisti, due dei quali appena arrivati. Partiti dalla mia terra, sbarcati, sventrati sulla strada dell'aeroporto di Kabul, all'altezza di una rotonda intitolata alla memoria del comandante Ahmad Shah Massoud, il leone del Panjshir, il grande nemico dell'ultimo esercito che provò ad occupare quell'impervia terra di montagne, sopravvissuto alla guerra sovietica, ma assassinato dai Taliban. Niente può dirla meglio, la strana geografia dei territori di guerra in cui oggi ci siamo svegliati tutti per la deflagrazione di un'autobomba più potente delle altre, ma che giorno dopo giorno, quando non ce ne accorgiamo, continua a disegnare i suoi confini incerti, mobili, slabbrati. Non è solo la scia di sangue che unisce la mia terra a un luogo che dalle mie parti si sente nominare storpiato in Affanìstan, Afgrànistan, Afgà. E' anche altro. Quell'altro che era arrivato prima che dai paesini della Campania partissero i soldati: l'afgano, l'hashish migliore in assoluto che qui passava in lingotti e riempiva i garage ed è stato per anni il vero richiamo che attirava chiunque nelle piazze di spaccio locali. L'hashish e prima ancora l'eroina e oggi di nuovo l'eroina afgana. Quella che permette ai Taliban di abbondare con l'esplosivo da lanciare contro ai nostri soldati coi loro detonatori umani. E' anche questo che rende simili queste terre, che fa sembrare l'Afganistan una provincia dell'Italia meridionale. Qui come là i signori della guerra sono forti perché sono signori di altro, delle cose, della droga, del mercato che non conosce né confini né conflitti. Delle armi, del potere, delle vite che con quel che ne ricavano, riescono a comprare. L'eroina che gestiscono i Taliban è praticamente il 90% dell'eroina che si consuma nel mondo. I ragazzi che partono spesso da realtà devastate dai cartelli criminali hanno trovato la morte per mano di chi con quei cartelli criminali ci fa affari. L'eroina afgana inonda il mondo e finanzia la guerra dei Taliban. Questa è una delle verità che meno vengono dette in Italia. Le merci partono e arrivano, gli uomini invece partono sempre senza garanzia di tornare. Quegli uomini, quei ragazzi possono essere nati nella Svizzera tedesca o trasferiti in Toscana, ma il loro baricentro rimane al paese di cui sono originari. È a partire da quei paesini che matura la decisione di andarsene, di arruolarsi, di partire volontari. Per sfuggire alla noia delle serate sempre uguali, sempre le stesse facce, sempre lo stesso bar di cui conosci persino la seduta delle sedie usurate. Per avere uno stipendio decente con cui mettere su famiglia, sostenere un mutuo per la casa, pagarsi un matrimonio come si deve, come aveva già organizzato prima di essere dilaniato in un convoglio simile a quello odierno, Vincenzo Cardella, di San Prisco, pugile dilettante alla stessa palestra di Marcianise che ha appena ricevuto il titolo mondiale dei pesi leggeri grazie a Mirko Valentino. Anche lui uno dei ragazzi della mia terra arruolati: nella polizia, non nell'esercito. Arruolarsi, anche, per non dover partire verso il Nord, alla ricerca di un lavoro forse meno stabile, dove sono meno certe le licenze e quindi i ritorni a casa, dove la solitudine è maggiore che fra i compagni, ragazzi dello stesso paese, della stessa regione, della stessa parte d'Italia. E poi anche per il rifiuto di finire nell'altro esercito, quello della camorra e delle altre organizzazioni criminali, quello che si gonfia e si ingrossa dei ragazzi che non vogliono finire lontani. E sembra strano, ma per questi ragazzi morti oggi come per molti di quelli caduti negli anni precedenti, fare il soldato sembra una decisione dettata al tempo stesso da un buon senso che rasenta la saggezza perché comunque il calcolo fra rischi e benefici sembra vantaggioso, e dalla voglia di misurarsi, di dimostrare il proprio valore e il proprio coraggio. Di dimostrare, loro cresciuti fra la noia e la guerra che passa o può passare davanti al loro bar abituale fra le strade dei loro paesini addormentati, che "un'altra guerra è possibile". Che combattere con una divisa per una guerra lontana può avere molta più dignità che lamentarsi della disoccupazione quasi fosse una sventura naturale e del mondo che non gira come dovrebbe, come di una condizione immutabile. Sapendo che i molti italiani che li chiameranno invasori e assassini, ma pure gli altri che li chiameranno eroi, non hanno entrambi idea di che cosa significhi davvero fare il mestiere del soldato. E sapendo pure che, se entrambi non ne hanno idea e non avrebbero mai potuto intraprendere la stessa strada, è perché qualcuno gliene ne ha regalate di molto più comode, certo non al rischio di finire sventrati da un'autobomba. Infatti loro, le destinazioni per cui partono, non le chiamano "missione di pace". Forse non lo sanno sino in fondo che nelle caserme dell'Afghanistan possono trovare la stessa noia o la stessa morte che a casa. Ma scelgono di arruolarsi nell'esercito che porta la bandiera di uno Stato, in una forza che non dispone della vita e della morte grazie al denaro dei signori della guerra e della droga. Per questo, mi augurerei che anche chi odia la guerra e ritiene ipocrita la sua ridefinizione in "missione di pace", possa fermarsi un attimo a ricordare questi ragazzi. A provare non solo dolore per degli uomini strappati alla vita in modo atroce, ma commemorarli come sarebbe piaciuto a loro. A onorarli come soldati e come uomini morti per il loro lavoro. Quando è arrivata la notizia dell'attentato, un amico pugliese mi ha chiamato immediatamente e mi ha detto: "Tutti i ragazzi morti sono nostri". Sono nostri è come per dire sono delle nostre zone. Come per Nassiriya, come per il Libano ora anche per Kabul. E che siano nostri lo dimostriamo non nella retorica delle condoglianze ma raccontando cosa significa nascere in certe terre, cosa significa partire per una missione militare, e che le loro morti non portino una sorta di pietra tombale sulla voglia di cambiare le cose. Come se sui loro cadaveri possa celebrarsi una presunta pacificazione nazionale nata dal cordoglio. No, al contrario, dobbiamo continuare a porre e porci domande, a capire perché si parte per la guerra, perché il paese decide di subire sempre tutto come se fosse indifferente a ogni dolore, assuefatto ad ogni tragedia. Queste morti ci chiedono perché tutto in Italia è sempre valutato con cinismo, sospetto, indifferenza, e persino decine e decine di morti non svegliano nessun tipo di reazione, ma solo ancora una volta apatia, sofferenza passiva, tristezza inattiva, il solito "è sempre andata così". Questi uomini del Sud, questi soldati caduti urlano alle coscienze, se ancora ne abbiamo, che le cose in questo paese non vanno bene, dicono che non va più bene che ci si accorga del Sud e di cosa vive una parte del paese solo quando paga un alto tributo di sangue come hanno fatto oggi questi sei soldati. Perché a Sud si è in guerra. Sempre.
Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency
20 settembre 2009
"La Repubblica"

sabato 19 settembre 2009

Il contrario della morte


" Maria chiude gli occhi e cerca di raffigurarsi l'Afganistan: - Me lo immagino come un posto con molta sabbia. Pieno di montagne con la neve sopra. Sabbia e neve, anche se non c'entrano, non stanno mai insieme nei sogni di nessuno. Ma io vedevo sempre polvere, sabbia, mercati pieni di vento, lo stesso che da noi c'è sulle spiagge. E in lontananza la neve sui cucuzzoli. E poi turbanti, tante barbe. E vestiti che ti fanno scomparire, che a me sembravano persino belli. Belli da indossare quando non vuoi essere vista e apparire solo di stoffa. A volte vorrei poterli mettere qui, quando mi sento mi sento gli occhi di tutti appiccicati sulla faccia.

Se sorrido, sorrido troppo e l'ho già dimenticato, se ho gli occhi abbuffati di lacrime, mormorano che devo finirla perchè piangere non me lo farà ritornare, se sono impassibile già emettono la sentenza: è impazzita di dolore. E vorrei coprirmi con quelle campane azzurre, con quei burqa."



Da "IL CONTRARIO DELLA MORTE" di Roberto Saviano




Maria è ancora giovane ed è già vedova dell'ultima guerra. Che non è quella studiata nelle scuole
ma l'ultima, quella che noi chiamiamo "missione di pace".La maggior parte delle truppe inviate in tali missioni è composta da soldati meridionali. Più della metà dei caduti italiani sono meridionali.
Al ritorno i reduci, spesso giovanissimi, investono tutti i loro risparmi in un bar o in un ristorante, in una attività che offra una qualche prospettiva di lavoro.
Gaetano, il ragazzo di Maria era partito per l'Afganistan, per poterla sposare e per iniziare un mutuo. Lei diciassette anni, lui ventiquattro. Troppo pochi per rimanere inchiodata al dolore, pochissimi per morire in "una missione di pace".
Quante Maria e quanti Gaetano ci sono sparsi per l'Italia? Non serve la retorica, non serve il silenzio. Solo una domanda: "Qual è il contrario della morte?"

giovedì 17 settembre 2009

Una rosa blu di Gerda Klein




Jenny è una bambina…..un’adorabile bambina.

I suoi occhi sono nocciola,i capelli un po’ più scuri. Se i capelli le cadono sugli occhi, li scosta.Ma la mano non và diritta alla fronte, prima si curva come un fiore al primo schiudersi dei petali, poi scosta i capelli dagli occhi.

Jenny è diversa.

Diversa ? Si, diversa da quasi tutte le altre. Ma chi ha detto che tutte le persone debbano essere uguali ? Pensare, agire, apparire uguali. Per me Jenny è come una rosa blù.

Una rosa blù ? Avete mai visto una rosa blù ? Ci sono rose bianche, e rose rosa, e rose gialle, e una infinità di rose rosse. Ma blù ? Un giardiniere sarebbe felicedi avere una rosa blù. La gente verrebbe da lontano per vederla: sarebbe rara, diversa, bella.

Anche Jenny è diversa.

Ecco perché, in qualche modo, è come una rosa blù.

Quando Jenny giunse a casa dalla clinica,“una bambolina rosa, morbida e paffuta”piangeva spesso, più spesso degli altri bambini.Perché ?

Chissà, forse vedeva ombre diverse che la spaventavano.Forse udiva suoni a lei sconosciuti.Quando fù più grandicella, stava sempre accanto alla mammae le si attaccava alla gonna.
Per un uccello così, volare è difficile: ci vuole più forza, più fatica, più tempo. Per un uccello con le ali normali volare è una cosa scontata, ma un uccellino con le ali corte deve impegnarsi molto per imparare. Non importa cosa. Ma c’è un’altra Jenny, una Jenny che, in un triste pomeriggio d’inverno, siede in poltrona e si dondola, con la sua bambola fra le braccia. E’ molto turbata, è confusa. Lentamente mi dice:“ mamma, Sally ha detto che sono ritardata. Che vuol dire, mamma ? Ritardata ? I bambini dicono ritardata, e ridono.Perché ridono, mamma ?”
Sapete, quando un gattino perde la coda l’udito gli si fa più acuto, dicono.E’ vero che la coda aiuta un gattino a correre più veloce, ma un gatto senza coda ci sente meglio e avverte i passi che s’avvicinano molto prima degli altri micini.Ma alcuni non sanno che un gatto simile può avere un udito tanto acuto; vedono solo che gli manca la coda.Certi bambini sono crudelie guardano fisso, e prendono in giro:“gatto senza coda ! “A volte Jenny correva dalla mamma e le si aggrappava stretta,

così, senza una ragione,o almeno senza una ragione chiara per noi.Pian piano capimmo che il mondo di Jennyera un poco diverso,un mondo, in un certo senso, a noi ignoto.Cominciammo a pensareche vivesse in un mondo nel qualepotevamo non sentirci a nostro agio.Entrare in quel mondo è un po’ come andare su un altro pianeta.E’ come se Jenny vivesse dietro uno schermo , uno schermo che non riusciamo a vedere.Forse ha colori magnifici,forse quei colori, a volte, distraggono Jennydal prestare attenzione a quel che diciamo.O forse ascolta una musica che noinon possiamo sentire.I pesci hanno un linguaggio e una musicatutta loro, portata dalle onde, dicono.Una musica che noi non possiamo udireperché non abbiamo orecchie abbastanza fini.Si, forse Jenny ode suoni che noi non udiamo,forse è per questo che a volte balza in piedie intreccia misteriosi passi di danza.Jenny è come un uccellino,un uccello dalle ali molto corte,mi capita di pensare.
Ci sono molte cose che Jenny non capisce.E ci sono molte cose di Jenny che gli altri non capiscono: Jenny è come un gattino senza coda, Jenny sente una musica diversa, Jenny ha le ali corte, Jenny deve essere protetta.

Jenny è come una rosa blù, delicata e bellissima. Ma le rose blù sono così rare che ne sappiamo poco, troppo poco.Sappiamo solo che hanno bisognodi essere curate di più.

Di essere amate di più.

mercoledì 16 settembre 2009

Settembre




Chiaro cielo di settembre
Illuminato e paziente
Sugli alberi frondosi
Sulle tegole rosse
Fresca erba
Su cui volano farfalle
Come i pensieri d'amore
Nei tuoi occhi
Giorno che scorri
Senza nostalgie
Canoro giorno di settembre
Che ti specchi nel mio cuore.
attilio bertolucci

martedì 15 settembre 2009

e andiamo ad incominciare....


E domani ha inizio il nuovo anno scolastico, qui, nel mio ridente paesino di collina. Immagino i miei bambini...avranno sicuramente preparato le cartelle, piene di quaderni nuovi, puliti, senza una grinza, una piega. Le matite e i colori ben temperati, la merenda nella tasca esterna dello zaino.I grembiulini puliti, che odorano di bucato, il collettino immacolato...Saranno sicuramente più alti, tre mesi sono tanti a quell'età. I volti abbronzati, rilassati ; qualcuno sbadiglierà per la levataccia. Saranno emozionati? Si, perchè fa sempre piacere rivedere le maestre ed i compagni, dopo tanto tempo...

Avranno voglia di raccontare le loro esperienze estive e lo faranno alzando timidamente la mano...finchè non "respireranno l'aria della vecchia masseria", come si dice da queste parti. E poi i corridoi si animeranno del loro allegro vociare e tutto tornerà come prima.

Negli loro occhi una domanda muta non mancherà: " Ma questa, oggi, ci darà i compiti a casa? Dimenticavo: anch'io ho preparato la mia cartella, i miei quaderni e...la merenda.



lunedì 14 settembre 2009

Donne che stanno cambiando il mondo



" Noi adesso possiamo andare in giro per il villaggio

senza alcun problema, ma cio' che amo di più del mio lavoro

è di essere sempre in relazione con le persone:

a me piace stare insieme alle altre donne,

mi piace lavorare con loro, mi piace uscire, venire al sentare ( il centro)

e incontrarle, discutere...."



Chalear, Bangladesh

Mentre nel mondo tante donne si battono per vivere in maniera più dignitosa, in Italia, stasera, si celebra l'ennesima idiozia volta a stabilire chi sia la più bella del reame: " Miss Italia".

venerdì 11 settembre 2009

Tè per tre



Le tazze sono quattro, ma, in verità, al nostro rituale del tè, si unisce sempre qualche altra amica, che partecipa a questi nostri rari, ma intesi, pomeriggi, vagamente anglosassoni.

Bhe, il lavoro, in questo periodo è ancora poco pressante, siamo più rilassate, quindi, un pomeriggio possiamo godercelo a chiacchierare amabilmente del tempo che fu.

Lo facciamo sempre e ogni volta con la stessa allegria...si, ridiamo sempre fino alle lacrime, di quel bambino, biondo e bello, di quel direttore, è stato lo stesso per tutto il tempo che abbiamo lavorato insieme, che voleva comprare " la linea dei numeri", credendo fosse un sussidio didattico.

Allora eravamo giovani, ma non siamo cambiate molto: Anna, sempre con lo stesso entusiasmo, Caterina dolcissima e comprensiva con tutti, io sempre la stessa rompiballe( non trovo altra caratteristica per definirmi), con la fissa delle tisane, dei tè, degli infusi...da sempre.

Nei nostri pomeriggi, però, preferiamo il tè alla vaniglia, perchè con il suo profumo dolce, il suo colore caldo, intenso e il suo aroma...invita alla riflessione, alle confidenze.

E così, dopo i ricordi si parla di quello che viviamo ora, nel lavoro ma, soprattutto, nelle nostre famiglie.

Viviamo, infatti, per periodi paralleli. C'è stato il periodo degli amori, delle delusioni, delle spalle su cui piangere, delle affettuose amicizie...e poi dei vestiti da sposa, dei corredi da bebè.

Ora i nostri figli sono cresciuti e commentiamo le loro scelte, ci consigliamo ma...il "nostro" modo di vedere la vita non è cambiato.

Forse dovremmo veramente sederci a quel tavolo, oggi alle 17, come tre signore compassate, tutte tirate, sfoggiare qualche gioiello e ricordarci che abbiamo una certa età....


mercoledì 9 settembre 2009

La cicala e la formica


La cicala per tutta l'estate

canta e suona,

invece la formica fa provviste

di briciole e semini.

Arriva l'inverno: la cicala

cerca cibo, è affamata e triste.

La formica ha tante provviste

e se ne sta contenta

nella sua casetta,

mentre la cicala muore di fame e di freddo.

Allora chiede aiuto alla formica ma, essa la scaccia con tono sprezzante.




L'antica favoletta la conosciamo tutti. E ogni volta che la leggo ai miei bambini, provo a farli riflettere sulla morale che ne deriva e a raccontarmi se si sentono più formiche o cicale. Oggi, per come siamo messi, dovremmo tutti essere delle formichine giudiziose. Però, io provo tanta simpatia per la cicala che vive alla giornata e si gode la vita.E quella formichina tanto tirchia e acida, proprio non la sopporto.

Forse perchè mi sento tanto cicala?

martedì 8 settembre 2009

Scusate il ritardo

Ho trascurato il blog in questa settimana perchè, tornata dalla vacanza al mare, mi sono fiondata letteralmente nel lavoro. A scuola ci sono grandi cambiamenti, lo sapevamo. Tra contrazioni di posti in organico, diversa organizzazione del lavoro e dell'orario...aggiornamenti, PON, POF, progettazioni varie....mi sono persa. Ma ci sono...con l'entusiasmo di sempre e la voglia di stare con i bambini, ritornando ad animare il blog incominciato due anni fa, quando erano in prima e scrivevano post brevi.
A presto.

martedì 1 settembre 2009

Primo settembre duemilanove

Ore 8.30
Per noi, gente di scuola, il tempo si misura in anni scolastici e non in anni solari. Infatti i miei ricordi incominciano con la frase: " L'anno in cui avevo la IV...."
Dunque, stamattina mi appresto a vivere una nuova avventura professionale con l'ottimismo, l'ironia e l'energia che caratterizzano i miei momenti migliori. Sarà un buon momento? Quanto durerà l'opposizione di Saturno e ....le paturnie al dirigente, saranno passate? Che abbia pure lui una qualche opposizione planetaria!
Questi i pensieri mentre mi vesto e la pelle abbronzata e la tonicità regalatami dal sole e dal nuoto, mi fanno impiegare pochissimo tempo davanti allo specchio. Lo so che non sarà sempre così...altre mattine non mi guarderò nemmeno allo specchio.
Passa a prendermi la mia storica amica-collega e ci avviamo verso la scuola, a piedi. Abbiamo tanto da raccontarci.

Ore 16.40

E ci siamo tutti ritrovati per lo storico " raduno" scuola dell'infanzia e scuola primaria che prende il nome di "Collegio dei docenti".
Volti rilassati, abbronzati, strette di mano, baci, alcuni sinceri, altri un tantino ipocriti. Intanto aspettavamo LUI, il nostro dirigente, col suo passo lungo, il sorriso alla Funari che con voce squillante ci annunciasse: "Questo è il mio quarantatrèsimo anno nella scuola elementare"(...e non te ne vai ancora in pensione?)
Invece, per la prima volta, non è arrivato. Al suo posto c'erano il foglio delle presenzer e il calendario degli incontri. Potevamo, volendo, tornare a casa.
E chi ci fermava più tra chiacchiere e commenti sulle novità che andremo a vivere grazie al ministro Gelmini ...ma questo lo sapevamo già....